All’inizio sono stati semplici fuochi sulla spiaggia, poi sono diventati rudimentali strutture sopraelevate e infine torri e grandiose opere monumentali. I fari sono un aiuto per i naviganti fin dall’antichità e prendono il nome dall’imponente costruzione sull’isola di Pharos che indicava i banchi di sabbia all’ingresso del porto di Alessandria d’Egitto.
I Romani hanno edificato numerosi fari lungo le coste dell’Italia (e dell’Impero), ma molti sono andati in rovina durante l’epoca delle invasioni barbariche. Nuove strutture di segnalazione sono sorte con l’avvento delle Repubbliche Marinare (come il Fanale di Livorno e la Lanterna di Genova) e poi sotto il Regno delle Due Sicilie.
La rete dei fari e dei fanali (segnalatori con una portata luminosa inferiore) è cresciuta ancora dopo l’Unità d’Italia e la Seconda Guerra Mondiale, fino ad arrivare a contare più di mille unità. Di pari passo si è evoluta la tecnologia di illuminazione. La legna ha ceduto il passo al carbone, poi a candele e combustibili che non producevano fumo.
L’invenzione di una innovativa lente a rifrazione da parte di Augustin Jean Fresnel nel 1822 ha segnato un punto cruciale nello sviluppo delle tecniche di segnalazione marittime e la definitiva svolta è arrivata con l’impiego dell’elettricità.
La semplificazione della gestione dei fari ha portato a una progressiva perdita di significato della figura del “farista” (anche detto “fanalista” o “guardiano”). Gli uomini e le donne che presidiavano le torri di segnalazione e curavano la manutenzione sono stati soppiantati dall’automazione delle strutture e il loro numero va assottigliandosi sempre di più.
La scomparsa dei faristi non significa solo la fine di un “lavoro storico”, ma ha come conseguenza anche il degrado di un patrimonio architettonico unico. Molte (bellissime) strutture lungo lo Stivale versano in rovina e la Difesa Servizi S.p.A. e Agenzia del Demanio hanno lanciato il progetto “Valore Paese Italia Fari” per recuperarle dandole in gestione a privati.
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