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Tutto quello che c'è da sapere su Gibellina e il "Grande Cretto di Burri”

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Tra le colline della Valle del Belice si cela una grande colata di cemento percorsa da una rete di profondi solchi. L’imponente massa bianca non è il frutto di una dissennata speculazione edilizia, bensì è una monumentale opera di land art. Il “Grande Cretto” è un’idea del celebre artista informale Alberto Burri e custodisce come un sudario le macerie di Gibellina.

Il paese del libero consorzio comunale di Trapani è stato raso al suolo dal violento terremoto che ha sconvolto la zona negli anni ’60 e non è mai più stato ricostruito. Il vecchio abitato è stato rimpiazzato da “Gibellina Nuova”, che è sorta a una ventina di chilometri di distanza ed è stata costruita da zero secondo un ambizioso progetto urbanistico.

Il Grande Cretto di Burri e Gibellina Nuova raccontano una pagina tragica e controversa della storia d’Italia, ma rappresentano anche uno straordinario esempio di resilienza e rinascita. Se siete curiosi e volete saperne di più, qui trovate alcune informazioni e curiosità che possono aiutarvi.

Il terremoto che ha cambiato tutto

Era da poco passata l’ora di pranzo quando, il 14 gennaio 1968, la Valle del Belice è stata squassata da un violento terremoto. La terra ha tremato di nuovo nel pomeriggio. Poi, nella notte, altre due potenti scosse hanno cambiato per sempre il volto della grande area tra Palermo, Agrigento e Trapani. Ma non era finita. Il 25 gennaio, un nuovo sisma, fortissimo, ha dato il “colpo di grazia” alla regione.

Il “terremoto del Belice” ha raso al suolo i paesi di Gibellina, Poggioreale, Salaparuta e Montevago e provocato danni enormi in almeno una dozzina di centri. Ma non solo. La distruzione e i crolli hanno interessato altre cinquanta località (comprese le grandi città della zona), oltre a strade, ferrovie, fabbricati rurali e infrastrutture agroindustriali. 

Il potente sisma (di intensità X nella scala Mercalli) ha causato centinaia di vittime e feriti e migliaia di sfollati. La grande emergenza è stata di fatto la prima per la “giovane” Repubblica Italiana ed è stata gestita con molta difficoltà. Il terremoto ha intensificato il già consistente fenomeno migratorio, mentre chi è rimasto ha dovuto affrontare una lunga e complessa ricostruzione.

Un ricostruzione non solo edilizia, ma culturale

Gibellina è stata rifondata ex novo a una ventina di chilometri dall’abitato originale. La stessa cosa è accaduta ad altri paesi, ma la storia del piccolo centro vicino a Trapani è unica. Per iniziativa del sindaco, Ludovico Corrao, la ricostruzione di Gibellina non è stata solo edilizia, ma anche “culturale”. 

Il primo cittadino ha invitato i maggiori architetti, scultori, pittori e letterati italiani a dare un contributo alla rinascita del paese e il suo appello ha ricevuto un gran numero di adesioni. Pietro Consagra, Arnaldo Pomodoro, Franco Angeli, Leonardo Sciascia e tanti altri hanno messo (gratuitamente) al servizio della comunità la loro visione e creatività e hanno dato forma a un vero e proprio museo en plein air.

Gibellina Nuova custodisce circa sessanta tra edifici e installazioni in stile concettuale e contemporaneo e lo stesso impianto urbano è un’opera d’arte. Il “sistema delle piazze” è una scenografica sequenza prospettica di spazi scanditi da elementi ripetuti e diversi per ogni segmento, così come il municipio e il suo “campo” porticato creano una sorta di quinta teatrale.

Ad accogliere chi arriva in città c’è la “Stella d’ingresso al Belice” o “Porta del Belice”, una grande struttura in acciaio inox ispirata alle luminarie delle sagre di paese. Mentre tra le strade di Gibellina spuntano una “Macchina per ascoltare il vento”, un sole in travertino “Omaggio a Tommaso Campanella” ed edifici sorprendenti come il teatro senza angoli retti e la chiesa sferica. 

Altre preziose opere sono conservate nel Museo d’arte contemporanea intitolato a Ludovico Corrao. Il MAC vanta una collezione di circa 2mila tra dipinti, grafiche e sculture ed è uno dei più “ricchi” del Sud Italia.

L’archeologia del futuro

Tra gli artisti chiamati a partecipare alla rifondazione di Gibellina c’era anche Alberto Burri. All’inizio, il pittore umbro ha ignorato l’invito. Ha “ceduto” quando Ludovico Corrao è andato da lui a Città di Castello e lo ha invitato di persona. Burri si è recato a Gibellina Nuova, ma il paese era già pieno di opere e l’artista non voleva aggiungerne un’altra. Così ha chiesto di essere accompagnato dove sorgeva il vecchio paese.

La devastazione del terremoto ha commosso Burri fin quasi alle lacrime, ma lo ha anche ispirato. L’artista ha pensato di trasformare le rovine di Gibellina in un “cretto”, una superficie percorsa da spaccature e fenditure. Burri ha proposto di compattare le macerie in un certo numero di “isole” e di ricoprirle con una colata di cemento bianco. I blocchi sarebbero stati separati da “camminamenti” che ripercorrevano alcune delle vie dell’antico paese.

In un primo momento, il progetto ha incontrato una forte opposizione. Le rovine di Gibellina rappresentavano per molti un simbolo di appartenenza e una memoria del passato. Ma alla fine ha prevalso la visione di Burri di realizzare un’opera di “archeologia del futuro”. Il cretto avrebbe testimoniato che su quelle terre avevano continuato a esistere della grandi civiltà, nonostante la tragedia che aveva avuto luogo.

Un’opera monumentale 

I lavori per la realizzazione dell’opera sono iniziati nel 1985. L’esercito ha accatastato i detriti e tutto ciò che era rimasto negli edifici in rovina in centoventidue spazi che corrispondevano alle isole immaginate da Burri. Poi sono stati costruiti i blocchi in cemento. Ciascuno è largo dai due ai tre metri ed è alto poco più di uno e mezzo. I camminamenti, invece, misurano da uno e mezzo a quattro metri. 

Ma i costi si sono rivelati un grande ostacolo. I lavori sono stati interrotti nel 1989 – quando erano stati realizzati 60mila dei circa 85mila metri quadrati previsti dal progetto – e sono rimasti fermi a lungo. La costruzione del cretto è ripresa nel 1997, grazie a una petizione promossa da diverse personalità illustri del mondo culturale e politico italiano. L’avanzamento è stato significativo, tuttavia l’opera è stata terminata e inaugurata solo nel 2015.

Alberto Burri e Ludovico Corrao non hanno visto il loro progetto diventare realtà, ma il Cretto di Gibellina è considerato uno dei più grandi esempi di land art al mondo. E non solo per le dimensioni monumentali.

La storia della grandiosa opera è raccontata in un piccolo museo allestito nel 2019 nella ex Chiesa di Santa Caterina, l’unico edificio del vecchio paese rimasto in piedi dopo il terremoto. Ma in progetto c’è un’ambiziosa riqualificazione del cretto. Il piano prevede la realizzazione di un moderno centro visitatori e l’inserimento dell’opera di Burri in una rete che unirà il patrimonio artistico della Valle del Belice.

Alberto Burri e i cretti

Il Grande Cretto di Gibellina è l’opera più famosa di Alberto Burri, ma la forma espressiva della craquelure fa parte della produzione dell’artista fin dagli anni ‘70. Il pittore umbro è stato uno dei massimi esponenti dell’arte informale e la sua firma è la sperimentazione con materiali inusuali e d’avanguardia.

Burri si è avvicinato alla pittura realizzando opere a carattere figurativo, ma ben presto ha iniziato a usare catrame, legno e plastica bruciati, juta, ferro, muffa e impasti di vario tipo. La serie dei “Sacchi” è tra le più celebri dell’artista ed è rappresentata da sacchi di juta mescolati e alternati al colore, strappati, cuciti e sovrapposti. Ugualmente celebri sono le “Muffe”, realizzate con le efflorescenze della pietra pomice e la pittura a olio, e i “Gobbi”, tele deformate da armature in metallo o rami di legno.

I “Cretti” appartengono alla produzione artistica successiva di Burri e sono il risultato dell’asciugatura o essiccatura di un impasto di bianco di zinco e colle viniliche (con l’aggiunta di terre per quelli colorati). Per realizzare quelli di maggiori dimensioni, l’artista utilizzava anche il caolino e “fissava” la craquelure con il vinavil. 

Le opere segnate da un reticolo di crepe e fratture sono state ispirate ad Alberto Burri dal paesaggio della Death Valley e racchiudono una stratificazione di significati. Da un lato esprimono “l’energia della superficie”. Dall’altro evocano lo scorrere del tempo e si propongono come una “psico-geografia” di eventi violenti e traumatici. 

Le Orestiadi di Gibellina

Oltre alla (ri)costruzione di Gibellina secondo una concezione umanista e all’avanguardia e alla realizzazione del Grande Cretto, a Ludovico Corrao si deve anche l’invenzione delle “Orestiadi”. La manifestazione è stata inaugurata nel 1981 con la rappresentazione dell’Orestea di Eschilo ed è un festival internazionale dedicato al teatro, alla musica e alle arti visive. 

Le Orestiadi hanno luogo ogni anno in estate e i vari eventi in cartellone si svolgono presso il Baglio di Stefano, un casale appena fuori dal centro abitato di Gibellina Nuova, o al Grande Cretto. La rassegna è organizzata in collaborazione con la Fondazione Istituto di Alta Cultura Orestiadi (che ha una sede anche al Palazzo Bach Hamba, nella Medina di Tunisi), il Comune di Gibellina, la Provincia di Trapani e la Regione Siciliana.

Le diverse edizioni del festival hanno visto la partecipazione di artisti di fama mondiale, come Peter Stein, Achille Bonito Oliva, Robert Wilson, Franco Quadri, Fulvio Abbate, Emir Kusturica, Goran Bregović e Marco Paolini. Quest’ultimo ha portato al Grande Cretto una delle sue opere più celebri, I-TIGI Canto per Ustica, ricostruzione e memoria della vicenda del DC9 Itavia precipitato nel Mar Tirreno il 27 giugno 1980.

Tra arte e memoria

Il Baglio di Stefano è uno dei luoghi chiave della rinascita di Gibellina e del progetto di rilancio del territorio della Valle del Belice. Il casale era una masseria fortificata, ma nel corso dei secoli ha perso il suo ruolo ed è stato abbandonato. Dopo il terremoto del 1968 è stato recuperato con un importante intervento di ricostruzione e restauro e oggi è la sede della Fondazione Istituto di Alta Cultura Orestiadi e del Museo delle Trame Mediterranee.

L’allestimento all’interno del Baglio di Stefano custodisce oggetti di uso quotidiano, costumi, gioielli, tessuti, arazzi dei popoli del “mare nostrum” e installazioni d’arte. Il museo è stato istituito nel 1996 ed è organizzato in due aree distinte. Nella casa padronale sono conservati i reperti e i manufatti collegati alla narrazione del bacino del Mediterraneo. Nell’ex granaio, invece, è esposta la collezione di opere del Novecento costituita attraverso le donazioni di Ludovico Corrao e un’attenta opera di acquisizione.

L’installazione simbolo del Museo delle Trame Mediterranee è probabilmente “La montagna di sale” di Mimmo Paladino. L’opera dello scultore, incisore e pittore esponente della transavanguardia italiana è un ammasso di cemento, vetroresina e pietrisco in cui sono inseriti trenta cavalli di legno ritratti in diverse posizioni.

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